Invito tutti coloro che vedono nel calcio solo una valvola di sfogo per cafonaggine, ignoranza, volgarità, a leggere la seguente lettera, pubblicata sulla pagina Facebook “Romanzo Calcistico”.
“Appena ho appreso la notizia di Mattia Perin ho pianto.
Io lascerei a coloro che dicono e pensano “guadagna i milioni, che vuoi che sia…” l’indifferenza che meritano, tanto non potranno mai capire. E provo a spiegarvi cosa intendo.
Negli occhi di questo ragazzo ho rivissuto la stessa disperazione che ho provato quando un tragico infortunio, in una brutta ed inutile amichevole precampionato, ha messo la parola fine alla passione di mio figlio.
Inutile forse è la parola sbagliata, perché per un giocatore di calcio nulla lo è, dalla partita al campetto dell’oratorio alla finale di un torneo per l’eccellenza.
I suoi 13 anni di attività calcistica sono stati il periodo più bello della mia vita, anche se di calcio non è che me ne intenda molto. Forse questo è un bene, perché mi ha esentata dal fanatismo che purtroppo infetta migliaia di genitori.
Sugli spalti mi sono abbronzata e spesso congelata, a volte imbarazzata quando oltre al “hai giocato bene” e “sei stato bravo” non sapevo dire, mentre gli altri bambini venivano catechizzati dai papini che gli schemi di gioco li conoscevano a menadito.
Mio figlio indossava la maglia numero 5 con la stessa serietà che lo contraddistingue anche adesso. Era ed è molto serio: non è il tipo che si lascia andare a sentimentalismi, per questo non sono mai riuscita a raccontargli di quella volta che entrai in una specie di trance.
Era una giornata di primavera e lui avrà avuto 13/14 anni.
Dal momento che sugli spalti non c’era nemmeno una mamma con cui scambiare una ricetta, mi fermai a bordo campo e… Cominciai a guardarlo come non avevo mai fatto fino a quel momento.
Lo sguardo si posò sui polpacci duri come il marmo e sui muscoli delle gambe che sembravano scoppiare. I compagni lo guardavano, aspettavano indicazioni e lui le impartiva come se fosse il capitano di un veliero. Sudava come un matto e aveva uno sguardo duro ed inespressivo che non conoscevo: difendeva la porta come se dal risultato dipendesse la sua stessa vita. Ormai avevo quasi i segni della rete sul viso quando, al fischio finale dagli spalti partì il coro “un capitano c’è solo un capitano”, mi ridestai da quel torpore, mi passò quell’inspiegabile dolore muscolare e sorrisi.
Mio figlio era diventato un leader: ed era già la seconda volta che me lo dicevano. La prima fu in quarta elementare, quando la maestra di matematica mi chiamò a rapporto e disse: “Signora, suo figlio ha la stoffa del leader e mi da grandi soddisfazioni, ma ultimamente sta facendo troppo il buffoncello trascinandosi dietro tutta la classe, mi dia una mano a farlo tornare un esempio positivo”.
Forse fu una delle poche volte in cui mi costrinse a fare il genitore. Lo sgridai e lui, orgoglioso com’era, tornò sulla retta via.
Cominciai ad andare meno alle partite, soprattutto quando sapevo che giocavano contro quella squadra conosciuta nella zona come “i cecchini”.
Non accettavo la violenza di quello che finora avevo visto come un gioco, anche se non gli spiegai mai il motivo della mia decisione.
Quella triste sera però sugli spalti c’ero, perché giocavano dietro casa. Mio figlio verso la fine del primo tempo smise di essere giocatore ancora prima di raggiungere il sogno.
Una madre certe cose le capisce anche se di calcio non ne capisce nulla. Lo capisce ancora prima che arrivi l’ambulanza. L’ho capito quando ho sentito il rumore delle ossa che andavano in frantumi. E mio figlio piangeva proprio come Mattia Perin perché aveva già capito, per il dolore invece imprecava come non l’avevo mai sentito fare.
Io non credo che sia solo una questione di soldi, per tornare all’oggetto che mi ha spinto a scrivere. I soldi facili si fanno con i colpi di fortuna. Se un uomo dedica gli anni più belli alla fatica e all’allenamento, si tratta di amore e di passione e se poi ha l’opportunità di guadagnare, diventa anche professione.
Del calcio credo di aver capito che è amore puro, che anche quando smetti di giocare non lo lasci mai del tutto.
Perché il calcio è uno sport magico, che va oltre le più improbabili delle barriere.
Lettera di una mamma qualunque…”