Gioventù bevuta: le prime sbronze a 12 anni, ecco la generazione che si sta perdendo in un bicchiere.
Cominciano a bere che sono poco più che bambini. E non finiscono più. Perché, come dice Gabriele S. , «alla dipendenza fisica puoi anche mettere una museruola, quella mentale ti resta dentro tutta la vita». Viaggio in un’emergenza che non fa rumore. Ma devasta migliaia di famiglie.
La dipendenza da alcol sta devastando tanti giovanissimi. Cominciano a bere a 12 anni. E non finiscono più. Abbiamo fatto un’inchiesta su un’emergenza che non fa rumore. Ma devasta migliaia di famiglie.
UNA LOTTA CHE DURA TUTTA LA VITA – «Per favore non scriva che ce l’ho fatta. Scriva che ce la sto facendo». Gabriele S., 32 anni, sa che il peggio è passato, e il meglio è una lotta che durerà tutta la vita. Si è accorto di essere alcol-dipendente nel 2014, una mattina «che mi sono alzato e a non bere mi sembrava che mi strappassero l’anima: tremori, conati di vomito, crisi di panico». La prima sbornia l’aveva presa dieci anni prima, l’8 luglio del 2004, il giorno del suo quattordicesimo compleanno. «Per festeggiarmi, due amici comprarono una bottiglia di tequila: andammo in un parchetto, loro bevvero un bicchiere a testa, io mi scolai il resto». Ai genitori che lo andarono a raccogliere promise: «Mai più». Il problema, quando cominci che sei poco più di un bambino, è che il “mai più” non è una promessa. È una premessa, l’inizio di una resistenza impossibile.
Gabriele è una luce nel mezzo (non alla fine, nel mezzo) di un tunnel che tanti suoi “fratellini minori” – le statistiche dicono che le prime sbronze si prendono tra gli 11 e i 12 anni – non sanno nemmeno di aver imboccato. L’alcol è un pericolo che viene sminuito, perché ti frega subito, ma ci mette un po’ a fartelo capire. Questa sottovalutazione è un errore di concetto, ma pure di calcolo. Perché in Italia sono gli alcolici, e non le droghe, la prima causa di morte (e anche di disabilità) dei maschi tra i 14 e i 28 anni. L’ultimo rapporto dell’Iss – «Epidemiologia e Monitoraggio Alcol Correlato in Italia» – dice anche che c’è un esercito di quasi un milione di giovanissimi bevitori a rischio. Che nel 2020 si sono ubriacati 120 mila ragazzini tra gli 11 e i 17 anni. Che l’anno prima i minorenni portati nei pronto soccorso italiani perché disfatti dall’alcol sono stati 4.723 (l’11 per cento del totale: dati Sisma, Sistema monitoraggio alcol). Se i numeri non bastano, avanzano le nostre piazze, o i bollettini del fine settimana: ragazzini gettati come gomitoli sui marciapiedi, una quantità inverosimile di alcol che poi “sfoga” in risse, in incidenti mortali, in lavande gastriche all’ospedale.
AL PRONTO SOCCORSO, 3 SU 4 SONO RAGAZZE – Giuseppe Bertolozzi guida il pronto soccorso pediatrico della clinica De Marchi, a Milano. Questo salone con le pareti colorate e i pelouche sparsi ovunque è sempre stata la patria delle otiti, la ridotta dei “febbroni”. Da qualche anno si è aggiunta una carovana di adolescenti ubriachi: «Arrivano in ambulanza, e o sono spenti o sono esagitati: vomitano, gridano, si fanno la pipì addosso». Nel 2021, alla De Marchi ne hanno trattati 68, ma, avverte Bertolozzi, «il loro peso percentuale, sul totale degli ingressi al pronto soccorso, è raddoppiato. Tre su quattro sono ragazzine, che ormai bevono come i maschi, ma reggono meno perché hanno una massa corporea più piccola e il metabolismo più lento». Molti sono di famiglia benestante, e «quando li chiamiamo, e vengono qui a riprendersi i figli, i genitori cascano dal pero: la verità è che abbiamo perso il controllo sui nostri ragazzi».
Il controllo andrebbe esercitato presto, prestissimo. Spiega il pediatra Luca Bernardo: «I primi contatti con l’alcol un bambino ce li ha a 8-10 anni, in famiglia. Magari il papà gli fa assaggiare un po’ di vino, aggiungendone qualche goccia a un bicchiere d’acqua. È la nostra storia, non va demonizzata. Ma per l’età, e per il peso del bambino, quelle poche gocce danno una sensazione di euforia che si imprime nel cervello, e collega il piacere al vino. Non dico che incanali verso il bere, ma è meglio evitare». Anche perché, se ti “ingaggia” da piccolo, l’alcol ti regala un’adolescenza da incubo.
COME UNA STORIA D’AMORE – «La mia l’ho spartita tra le droghe e un paio di comunità», racconta Gabriele S., «ma non sono mai diventato dipendente dagli stupefacenti perché con l’alcol avevo e ho ancora una storia d’amore: è una specie di monogamia, non so se mi spiego». Nel dolore, in questo percorso che è una maratona ripetuta ogni giorno, ha sviluppato una saggezza da sociologo, e dice che in Italia «c’è un problema culturale e un eccesso di occasioni». Il problema culturale: «Nelle case c’è sempre una bottiglia di rosso a tavola; nel ristorante la prima cosa che ti danno è la carta dei vini». Le occasioni: «L’alcol è peggio della droga perché ovunque ti giri, ce l’hai. Il fumo devi andarlo a cercare e comunque costa, e poi hai paura che ti “becchino”. Io con le prime paghette, a 15 anni, andavo all’Eurospin e per 5 euro prendevo una bottiglia di rum: all’epoca le cassiere non guardavano neppure quello che ti mettevano nel sacchetto (la legge che impedisce la vendita di alcolici ai minorenni è del 2012: il decreto Balduzzi, ndr)».
SHOTTINI DI GIN E VODKA A 1 EURO – I prezzi bassi e la facilità di reperimento sono il carburante principale di questa epidemia. Shottini, cicchetti, chupitos: con un euro, migliaia di giovani si sparano a ripetizione in gola 50 millilitri di white spirits (gin, vodka) magari mischiati con succhi colorati, perché, spiega il professore Emanuele Scafato, il presidente dell’Osservatorio Nazionale Alcol, «chi vende sa benissimo che le papille gustative dei giovani sono “attratte” dai sapori dolci e fruttati». Qui va scavata una differenza: mentre la droga, specie quella pesante, è un vizio solitario, l’alcol ha poteri “addensanti”: ti fa sentire parte di un gruppo, e dentro una moda che è più che altro un conformismo («Bevono tutti, perché io no?», è la giustificazione in fotocopia dei ragazzi). Un conformismo diffuso anche tra gli adulti. «Pensi che l’altra sera a cena un mio coetaneo, esimio professionista, mi ha detto: “Di te non mi fido perché sei astemio”. Che messaggi può dare, ai figli, un tipo così?», chiede il professore Gianni Testino, 61 anni, gastroenterologo e presidente della Società italiana di alcologia.
Il modo più semplice per far calare i consumi sarebbe quello di alzare il più possibile i prezzi. Ma la politica rema contro, forse, spiega Testino, «perché deve tutelare quei 12 miliardi di euro che sono i ricavi, legittimi, per carità, dei produttori. Però 25 miliardi li spendiamo in costi diretti per curare i danni provocati dall’alcol: cancro, cirrosi epatica, incidenti, sussidi per chi perde il posto di lavoro perché beve». Già perché se l’alcol ti mette al centro di una tribù, l’alcolismo ti crea il vuoto attorno.
UN DRAMMA IN GRAN PARTE SOMMERSO – «Lei», dice Gabriele indicando una ragazza che spazza il giardino, «è la mia ex fidanzata, ed è l’unica che mi è rimasta vicino. Lei e i miei due cani. Gli altri sono scappati tutti». Nel 2015, prima di trasferirsi in un’altra regione, la mamma di Gabriele lo portò al padiglione 10 dell’ospedale di San Martino di Genova, dove proprio il professor Testino dirige il reparto di Patologia delle dipendenze e di Epatologia Alcol Correlata. «La prima cosa che dissi al prof fu: “Non vengo per smettere di bere, ma per bere più a lungo”. Le flebo me le lasciavo fare per rinviare la cirrosi, così avrei avuto qualche anno supplementare da attaccare alla bottiglia», racconta.
MANCA UN PROTOCOLLO – Il rapporto dell’Iss dice che solo il 10 per cento dei «consumatori dannosi» (minorenni e non) viene intercettato dal servizio sanitario nazionale. Di questi, solo un terzo riceve un trattamento. Manca un protocollo comune che gestisca quel che succede appena sfiamma la fase acuta. Perché i minori collassano al pronto soccorso, e poi vengono rimandati a casa senza un’indicazione, una cura. Spiega Testino: «Quando i ragazzi consumano alcol o droghe, è facile che abbiano manifestazioni psicopatologiche, che mostrino un tratto schizofrenico, autistico o borderline. Non è detto che siano schizofrenici o borderline, eppure vengono subito messi sotto psicofarmaco. Noi li disintossichiamo, stiliamo terapie personalizzate, li valutiamo dal punto di vista psichiatrico a distanza di tempo: se capiamo che i disturbi d’ansia o la schizofrenia sono primitivi, li curiamo con le medicine o la psicoterapia. Altrimenti bisogna trovare una soluzione perché rischiamo di psichiatrizzare una generazione». Gli adolescenti accettano il farmaco o la seduta dallo psicoterapeuta, ma non di mettersi in gioco: sono consci di avere un problema, ma non sono consapevoli che lo debbano risolvere loro. L’unico rimedio, per il professore, «sono i gruppi di auto-aiuto come gli Alcolisti anonimi».
LA PANDEMIA È STATO UN ACCELERATORE – Allargando il campo dell’indagine, e spingendola indietro di due anni, va sottolineato che la pandemia è stata un formidabile acceleratore della diffusione e del consumo di alcol tra giovanissimi. Anzitutto perché, come dice il dottor Bertolozzi, ha fatto «impennare i problemi neuropsichiatrici – ansia, depressione, anoressia – che predispongono al bere». Poi perché ha fatto saltare i controlli sull’età di chi compra. Lo spiega bene il professor Scafato: «Durante il lockdown sono aumentati in modo stratosferico gli acquisti on line e sul web è impossibile accertarsi che l’acquirente sia maggiorenne. Quella che si è presentata come una necessità – era tutto chiuso, non si poteva uscire – è diventato un mezzo per aggirare i divieti». La collisione tra l’ansia da isolamento e l’euforia per la “liberazione” ha poi portato a un aumento esponenziale del binge drinking (letteralmente abbuffata di alcolici), del bere tanto e in poco tempo per sballare. Tra le giovani donne questa pratica è cresciuta del 40 per cento (fonte Iss).
Se chiedi al professor Testino qual è una dose “accettabile” di alcol per un giovane, la risposta non è una quantità, ma una similitudine: «Il Papa non le dirà mai di bestemmiare con moderazione; a noi sanitari l’etica impone di dire la verità: anche un solo bicchiere di alcol fa male, specie ai ragazzi». Fa male al corpo: l’etanolo, e cioè l’alcol, è stato inserito dall’Oms nel gruppo 1 delle sostanze cancerogene («Come il fumo, come l’amianto, come le radiazioni di Fukushima», elenca Testino). E indirizza lo spirito: «Quando ci si avvicina a una sostanza psicoattiva (quindi anche alle droghe), nei ragazzi fino a 25 anni il rischio di diventare addicted sale del 35 per cento rispetto a quello che corrono gli adulti», dice ancora il presidente della Società italiana di alcologia.
Cosa succede sotto la scatola cranica di un minorenne che esagera con l’alcol ce lo spiega il professor Giulio Maira, neurochirurgo di fama mondiale e formidabile “biografo” del cervello (ha scritto due libri che lo raccontano meglio di un trattato di anatomia: l’ultimo, in uscita per Solferino, è Il telaio magico). «Tra i 10 e i 20 anni, la tentazione di eccedere è naturale: siamo come un cavallo che è pieno di energie, ma senza cavaliere. Questo perché la “sede” dell’emotività – l’area del sistema limbico, che spinge alla trasgressione – è completa, mentre quella della razionalità – la corteccia prefrontale – è ancora in formazione. L’abuso di alcol soprattutto nell’età dell’adolescenza, contrasta la corretta formazione delle reti neurali e delle sinapsi (i “ponti” fra i neuroni), e interferisce con il processo di strutturazione della corteccia prefrontale. Ogni nuova sinapsi è una cosa in più che puoi imparare: se tramite alcol li fai saltare, quei ponti, il danno è serio».
IL SUO RACCONTO AI BAMBINI – Ora Gabriele sbriga i lavori socialmente utili alla Croce verde di Quarto, «dove ho trovato un ambiente fantastico, e spero che prima o poi mi assumano. Devi occuparti la giornata, altrimenti è la fine». Ripete più volte che alla dipendenza fisica puoi mettere la museruola, ma quella mentale «te la porti avanti per sempre: io prendo antidepressivi e ansiolitici, faccio psicoterapia. Senza questi aiuti, non ce la farei. Ogni tanto ho piccole ricadute, perché l’idea di smettere del tutto mi fa impazzire: ma so che è come giocare alla roulette russa». Settimana scorsa è andato in una scuola elementare a raccontare il suo inferno ai bambini. «Nei licei mi prenderebbero in giro, questi bimbi ti ascoltano, fanno domande. Spero di lasciargli qualcosa. Di fargli vedere lo straccio che ero, e la persona che sono tornato a essere».
PERCHÉ BEVONO – Ma perché questi ragazzi bevono? Abbiamo sondato sociologi, neuropsichiatri infantili, psicologi specializzati in dipendenze. La risposta più convincente ce l’ha data un prete, don Salvatore Giuliano, parroco della basilica di San Giovanni Maggiore, nel centro storico di Napoli. Un sabato al mese, lascia aperta la sua chiesa fino a notte fonda: «Raccatto per i vicoli le macerie della movida, ragazzini di 12 o 13 anni gettati come gomitoli sui marciapiedi. Li portiamo qui, li ascoltiamo. Secondo me la maggior parte è vittima della “sindrome del ciucciotto”. Quando un neonato piange si tappa il pianto con il ciuccio, e invece quel pianto andrebbe tradotto, decodificato (magari vuole essere abbracciato o cambiato). E quando quel neonato cresce, continuiamo a tappargli la bocca, lo abituiamo a tenersi dentro la sua comunicazione. Questa comunicazione tappata diventa dinamite. E prima o poi esplode».