Il riscatto grazie all’associazione Papa Giovanni XXIII: oggi produce vino e aiuta i disabili

«Mi ero perso per depressione. Avevo iniziato con gli piscofarmaci, poi l’alcool. E per 22 anni sono stato a San Patrignano da cui sono uscito pulito». Ma non finisce sull’uscita della comunità di Coriano di Rimini, il ritorno in società di Amedeo Franconi. Marchigiano, 67 anni, la sua storia è poco natalizia se l’immaginario delle storie natalizie è quello fiabesco, ma lo diventa se il Natale è – forse banalmente – sinonimo di rinascita e quindi riscatto. Una storia di riscatto personale, senza troppo rancore. Aveva lavorato nel settore calzaturiero prima di finire in comunità. Dopo la lunga parantesi a “Sanpa” era finito in strada, vivendo anche in stazione per coprirsi con un tetto. «Avevo 60 anni e cominciai a bere – dice – non ero un alcolista, ma bevicchiavo”» Da sei anni è stato accolto a Rimini alla Capanna di Betlemme dell’associazione Papa Giovanni XXIII di cui è ospite in una struttura: la sua vita ora è – anche – il vino, ma quello buono, il frutto del lavoro dei vigneti ben speso per aiutare i giovani disabili o ragazzi in difficoltà ospiti dell’associazione.

Amedeo Franconi, le va di riavvolgere il nastro e raccontare la sua storia?

«Dopo un periodo difficile sono stati ospite per 22 anni alla comunità di San Patrignano. Prima era stato un calvario ero finito anche in un reparto di psichiatria, poi in comunità mi hanno ripulito. Insomma nel 2015 andai vi, ma finii in strada. Per 8 – 9 mesi la mia base era la stazione dei treni. Tornai quindi nelle Marche vicino al mio paese. Finalmente, fu lì che le persone cominciarono a darmi una mano. Mi trovai anche un lavoro, ma lo persi e ancora ritornai in strada. Avevo 60 anni e cominciai a bere, di certo non ero un alcolista ma insomma bevicchiavo».

E poi cosa successe?

«Una dottoressa in pensione, una signora anziana mi accompagnò a Rimini a un centro specializzato per disintossicarmi anche se i miei problemi di alcolismo non erano gravi. A Rimini sono entrato in contatto con la Capanna di Betlemme, dove di fatto mi sono sentito accolto. Sempre a Rimini avevo iniziato a lavorare come carrozziere ma mollai, perché quel mestiere non è per me».

E poi arrivò la svolta…

«Gli operatori della capanna di Betlemme mi dissero che avrebbero voluto produrre il loro primo vino. Sapevano che ero un esperto di viticoltura. Ed è vero perché lavoravo soprattutto per passione, con mio padre. E sottolineo, ci vuole passione ma di certo quella non basta. Devi anche capirci qualcosa, tanto che ho fatto anche corsi e seguito persone più esperte»

E il vino buono è uscito?

«A Rimini è stata una bella sfida. Quando vidi i vitigni dissi: «ragazzi qui ci vogliono almeno tre anni per fare le cose fatte bene. Era tutto abbastanza malandato. All’inizio da quelle viti non poteva che uscire acqua, e quindi dovevamo rimboccarci le maniche. Dopo un po’ di anni posso confermare che da quelle viti esce un vino buono, anzi, come è normale che sia, ogni anno il vino è più buono. Siamo orgogliosi. Mi prendo anche cura di un ragazzo, che però non va di chiamare disabile per quanto soffra di un lieve autismo. Tanta soddisfazione ma è stata anche parecchio dura: all’inizio non mi dava retta ma è stato impagabile trasmettergli passioni e competenze. Che poi… non ci occupiamo solo viti ma anche di olivi, olivi secolari che ancora danno i loro frutti»

Ha seguito anche altri ragazzi giusto?

«Si. Purtroppo uno di loro non c’è più, è morto. Prima di andarsene mi ha scritto “grazie di tutto”».